SENTENZA N. 147
ANNO 2012
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Alfonso QUARANTA; Giudici : Franco
GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria
NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio
LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario
MORELLI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 19, commi 4 e
5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la
stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15
luglio 2011, n. 111, promossi dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Liguria,
Umbria, dalla Regione siciliana, e dalle Regioni Puglia e Basilicata, con
ricorsi notificati il 12-14 e il 13 settembre 2011, depositati in cancelleria il
14, il 21 e il 23 settembre 2011 e rispettivamente iscritti ai nn. 90, 98, 99,
101, 102, 104 e 105 del registro ricorsi 2011.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei
ministri;
udito nell’udienza pubblica del 18 aprile 2012 il Giudice relatore
Sergio Mattarella;
uditi gli avvocati Giandomenico Falcon per le Regioni Liguria ed
Emilia-Romagna, Marcello Cecchetti per la Regione Toscana, Paola Manuali per la
Regione Umbria, Marina Valli e Beatrice Fiandaca per la Regione siciliana e gli
avvocati dello Stato Enrico De Giovanni e Angelo Venturini per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Con sette diversi ricorsi le Regioni Toscana, Emilia-Romagna,
Liguria, Umbria, Puglia, Basilicata e la Regione siciliana hanno proposto
questioni di legittimità costituzionale relative a diverse disposizioni del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111.
La presente decisione ha oggetto unicamente l’impugnazione dell’art.
19, commi 4 e 5, del citato decreto-legge, essendo oggetto di separate decisioni
la trattazione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale proposte
dalle sole Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Liguria avverso altre disposizioni,
con riferimento anche a differenti parametri.
Le Regioni menzionate hanno censurato l’art. 19, comma 4, del d.l. n.
98 del 2011 – e alcune di esse, e cioè le Regioni Toscana, Umbria, Puglia e
Basilicata, anche il successivo comma 5 – per violazione degli artt. 117, terzo
e sesto comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, del principio di leale
collaborazione e, limitatamente alla Regione siciliana, anche per violazione,
oltre che del già citato art. 117, terzo comma, Cost., degli artt. 14, lettera
r), 17, lettera d), e 20 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455
(Approvazione dello Statuto della Regione siciliana), nonché degli artt. 1 e 6
del d.P.R. 14 maggio 1985, n. 246 (Norme di attuazione dello Statuto della
regione siciliana in materia di pubblica istruzione).
2.— Il testo dei due commi impugnati è il seguente:
«4. Per garantire un processo di continuità didattica nell’ambito dello
stesso ciclo di istruzione, a decorrere dall’anno scolastico 2011-2012 la scuola
dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado sono
aggregate in istituti comprensivi, con la conseguente soppressione delle
istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni
didattiche e scuole secondarie di I grado; gli istituti compresivi per acquisire
l’autonomia devono essere costituiti con almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per
le istituzioni site nelle piccole isole, nei comuni montani, nelle aree
geografiche caratterizzate da specificità linguistiche.
5. Alle istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di
alunni inferiore a 600 unità, ridotto fino a 400 per le istituzioni site nelle
piccole isole, nei comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da
specificità linguistiche, non possono essere assegnati dirigenti scolastici con
incarico a tempo indeterminato. Le stesse sono conferite in reggenza a dirigenti
scolastici con incarico su altre istituzioni scolastiche autonome».
3.— Le Regioni a statuto ordinario ricorrenti censurano le suindicate
disposizioni con argomentazioni in larga misura coincidenti.
Esse osservano, innanzitutto, che tali norme comportano una
significativa riduzione del numero delle scuole dell’infanzia, delle scuole
primarie e delle scuole secondarie di primo grado mediante la formazione di
istituti comprensivi, imponendo un numero minimo di iscritti come condizione per
ottenere l’autonomia e determinando una diminuzione del numero dei dirigenti
scolastici; il tutto nel quadro di un complessivo contenimento della spesa in
materia di istruzione, avviato già con l’art. 64 del decreto-legge 25 giugno
2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto
2008, n. 133.
Nella materia dell’istruzione – argomentano le ricorrenti – convivono
diverse competenze, suddivise tra Stato e Regioni: al primo spetta la competenza
esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost., in tema di
«norme generali sull’istruzione», mentre è oggetto di competenza concorrente,
secondo l’art. 117, terzo comma, Cost., la materia dell’istruzione in generale,
nella quale allo Stato rimane soltanto la determinazione dei principi
fondamentali.
Le Regioni ricorrenti rilevano che nel caso specifico, alla luce dei
concetti espressi nella sentenza n. 200 del 2009 di questa Corte, non sembra che
le disposizioni censurate possano rappresentare norme generali sull’istruzione,
in quanto esse non fissano affatto gli standard minimi, non toccano i cicli
dell’istruzione, non regolano le finalità ultime del sistema dell’istruzione, né
hanno ad oggetto la regolamentazione delle prove che consentono il passaggio ai
diversi cicli o la valutazione periodica degli apprendimenti e del comportamento
degli studenti. Allo stesso modo, però, neppure sembra che le norme censurate
possano ritenersi espressione di principi fondamentali in materia di istruzione,
poiché le stesse si risolvono nell’enunciazione di una serie di regole di
dettaglio «che precludono l’esercizio di scelte che sono la ragione stessa
dell’autonomia che la Costituzione riserva alle Regioni» (così, testualmente, le
Regioni Emilia-Romagna e Liguria). Stabilire che non possono esservi scuole
dell’infanzia, scuole primarie e secondarie di primo grado che non siano
accorpate in istituti comprensivi (art. 19, comma 4) significa escludere in via
assoluta la possibilità di dare risalto a specifiche particolarità locali,
imponendo alle Regioni una mera attività di esecuzione. Analogamente, l’art. 19,
comma 5, vietando di attribuire la dirigenza scolastica alle istituzioni
scolastiche autonome con un numero di alunni inferiore ad una certa soglia
fissata dallo Stato esclude, senza una plausibile ragione, qualunque possibilità
di valutazione da parte delle Regioni, da compiere sulla base delle risorse
disponibili. Non si tratta, quindi, di principi fondamentali, bensì, in modo
evidente, di una normativa di dettaglio emessa in una materia di competenza
concorrente.
Osservano poi le ricorrenti che una tipica competenza regionale –
riconosciuta anche dalla giurisprudenza costituzionale intervenuta subito dopo
la riforma del 2001 (sentenze n. 13 del 2004, n. 34 e n. 279 del 2005) e poi
ribadita nella citata pronuncia n. 200 del 2009 – è proprio quella riguardante
la programmazione della rete scolastica ed il dimensionamento degli istituti
scolastici. Tale competenza era stata già conferita alle Regioni dall’art. 138
del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e
compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in
attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59); né è pensabile che una
funzione attribuita alle Regioni nel quadro costituzionale antecedente la
riforma di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al
titolo V della parte seconda della Costituzione), sia stata poi alle stesse
sottratta dopo tale riforma, che è orientata nel senso di una maggiore
autonomia.
In particolare, la Regione Toscana sottolinea che le norme in esame
rientrerebbero nel medesimo ambito di cui all’art. 64, comma 4, lettera f-bis),
del d.l. n. 112 del 2008, già dichiarato costituzionalmente illegittimo con
citata la sentenza n. 200 del 2009.
La totale mancanza di ogni coinvolgimento delle Regioni nel processo di
ristrutturazione degli istituti scolastici determinerebbe, inoltre, la
violazione del principio di leale collaborazione – che la Regione Basilicata, in
particolare, ricollega all’art. 120 Cost. – e dell’art. 118 Cost. (richiamato
dalle Regioni Toscana e Umbria), poiché, anche invocando il principio di
sussidiarietà in senso ascendente, si sarebbe dovuta comunque garantire
un’adeguata concertazione con le Regioni. Il che è ancor più grave se si pensa
che la modifica legislativa è intervenuta nel mese di luglio, ossia a ridosso
dell’inizio dell’anno scolastico, in tal modo alterando decisioni ed assetti
organizzativi già assunti dalle Regioni. A questo proposito, le Regioni Toscana,
Umbria e Puglia fanno presente di essersi già dotate, con proprie leggi
regionali o provvedimenti aventi natura di decreti, di un piano concernente il
dimensionamento degli istituti scolastici.
Il carattere di norme di dettaglio delle disposizioni sottoposte a
scrutinio, inoltre, lederebbe anche l’art. 117, sesto comma, Cost., in base al
quale la potestà regolamentare spetta alle Regioni in tutte le materie che non
rientrano in quelle di competenza esclusiva dello Stato.
4.— Le Regioni ricorrenti rilevano, inoltre, che le disposizioni
contenute nell’art. 19, commi 4 e 5, del d.l. n. 98 del 2011 non possono trarre
il loro fondamento giustificativo in altri titoli di competenza previsti
dall’art. 117 della Costituzione.
Al riguardo, le Regioni Umbria e Puglia evidenziano che non può
parlarsi, in questo caso, di disposizioni concernenti la determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera
m), Cost., perché la normativa impugnata non si preoccupa di imporre il
raggiungimento di livelli qualitativamente minimi nel servizio istruzione –
livelli che le Regioni possono certamente migliorare – ma detta, invece, una
normativa specifica relativa alle dimensioni ed alla dirigenza degli istituti
scolastici.
Tutte le Regioni ordinarie ricorrenti, infine, specificano che le
disposizioni oggi sottoposte allo scrutinio della Corte, pur avendo un chiaro
obiettivo di riduzione della spesa, non possono considerarsi principi
fondamentali nella materia concorrente del coordinamento della finanza pubblica.
La giurisprudenza costituzionale, infatti, ha ribadito in più occasioni (si
richiamano, tra le altre, le sentenze n. 182 del 2011, n. 120 e n. 289 del 2008
e n. 169 del 2007) che lo Stato può imporre legittimamente alle Regioni vincoli
alle politiche di bilancio; tuttavia, affinché non venga invasa la sfera di
competenza regionale, occorre che tali limiti riguardino l’entità del disavanzo
oppure, ma solo in via transitoria, la crescita della spesa corrente, fermo
restando che lo Stato non può mai fissare limiti precisi per singole voci di
spesa, ma soltanto un limite complessivo che lasci alle Regioni la libertà di
allocare le risorse nei diversi ambiti. Nel caso specifico, invece, la normativa
statale lede ulteriormente la competenza concorrente delle Regioni nella materia
citata, perché non lascia alle stesse alcuna possibilità di scelta.
5.— La Regione siciliana, infine, nel proprio ricorso, svolge
considerazioni analoghe a quelle delle Regioni a statuto ordinario, ma richiama,
inoltre, specificamente i parametri costituiti dalle norme dello Statuto
speciale e dalle relative disposizioni di attuazione.
A norma dell’art. 14, lettera r), e dell’art. 17, lettera d), del
r.d.lgs. n. 455 del 1946, infatti, la Regione è titolare di una potestà
normativa primaria in materia di istruzione elementare e di una potestà
concorrente relativa all’istruzione media e universitaria; l’art. 20 dello
Statuto, poi, attribuisce alla Regione le funzioni esecutive ed amministrative
nelle materie di competenza regionale. Tale quadro è completato dagli artt. 1 e
6 del d.P.R. n. 246 del 1985.
In attuazione di tali proprie competenze, la Regione siciliana precisa
di essere intervenuta a regolare, fra l’altro, anche il dimensionamento degli
istituti scolastici, con le proprie leggi regionali 24 febbraio 2000, n. 6, e 12
luglio 2011, n. 13. Scorrendo le disposizioni di queste ultime, si vede che la
Regione ha fissato le condizioni numeriche che gli istituti scolastici sono
tenuti a raggiungere per poter conseguire l’autonomia, per cui le indicazioni
imposte dallo Stato vengono a confliggere con la normativa regionale. D’altra
parte, la giurisprudenza costituzionale ha da tempo riconosciuto (vengono citate
le risalenti pronunce n. 18 del 1969 e n. 165 del 1973) che la disciplina
statale ha, nelle materie di competenza primaria della Regione, una sorta di
efficacia suppletiva, tale che, ove la Regione abbia dettato norme proprie, le
stesse prevalgono su quelle statali.
Osserva poi la ricorrente che le norme impugnate, invece, pur non
essendo esplicitamente destinate ad operare anche nelle Regioni a statuto
speciale, devono, in assenza di espressa previsione di garanzie delle loro
competenze, ritenersi applicabili anche alle medesime.
La giurisprudenza costituzionale ha stabilito (sentenza n. 177 del
2004) che alla Regione siciliana spettano le attribuzioni degli organi centrali
e periferici dello Stato in materia di pubblica istruzione, mentre allo Stato
rimane la competenza relativa alla disciplina della natura giuridica e del
riconoscimento legale degli istituti scolastici non statali, secondo un assetto
che è da ritenere confermato anche alla luce dell’art. 10 della legge
costituzionale n. 3 del 2001. Ne deriverebbe, pertanto, la sicura illegittimità
costituzionale delle disposizioni censurate.
Oltre alle citate lesioni, la Regione lamenta anche la violazione del
principio di leale collaborazione, perché la normativa oggetto di ricorso è
stata approvata senza alcuna previa concertazione con le Regioni.
6.— In tutti i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con
singoli atti di identico contenuto, chiedendo che le prospettate questioni
vengano dichiarate non fondate.
Osserva l’Avvocatura dello Stato che le norme impugnate impongono la
formazione di istituti comprensivi per la scuola dell’infanzia, per quella
primaria e per quella secondaria di primo grado.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2009, ha chiarito
che, anche dopo la riforma del 2001, lo Stato mantiene una competenza esclusiva
in materia di norme generali sull’istruzione; secondo tale pronuncia, deve
ritenersi che «il sistema generale dell’istruzione, per sua stessa natura,
rivesta carattere nazionale, non essendo ipotizzabile che esso si fondi su una
autonoma iniziativa legislativa delle Regioni». Alla luce di questo criterio, va
riconosciuto che le norme censurate, andando ad incidere sulla determinazione
degli standard strutturali minimi che le istituzioni scolastiche devono
possedere, «si possono annoverare tra quelle disposizioni che definiscono la
struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di
essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme su tutto il
territorio nazionale»; in quanto tali, esse rientrano nella competenza esclusiva
dello Stato. Come già in precedenza avveniva con l’art. 2 del d.P.R. 18 giugno
1998, n. 233 (Regolamento recante norme per il dimensionamento ottimale delle
istituzioni scolastiche e per la determinazione degli organici funzionali dei
singoli istituti, a norma dell’articolo 21 della L. 15 marzo 1997, n. 59), anche
l’attuale art. 19 risponde alla necessità di fissare criteri omogenei su tutto
il territorio al fine di far acquisire alle istituzioni scolastiche l’autonomia
e di consentire l’attribuzione della personalità giuridica.
Ad analoghe conclusioni si perviene, secondo l’Avvocatura dello Stato,
anche richiamando la competenza concorrente in tema di istruzione prevista
dall’art. 117, terzo comma, Cost.: infatti la natura di norma di principio
emerge dal rilievo per cui le norme dell’impugnato art. 19, commi 4 e 5,
contribuiscono a configurare la struttura portante del sistema nazionale di
istruzione, al fine anche di consentire un’offerta formativa omogenea.
Rileva poi la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri che
esiste, nella specie, anche un altro titolo di competenza statale, ossia quello
del coordinamento della finanza pubblica. Le disposizioni in questione, infatti,
in attuazione degli obiettivi finanziari già delineati dall’art. 64 del d.l. n.
112 del 2008, determinano evidenti risparmi di spesa «derivanti dalla riduzione
del numero di istituti scolastici di 1.130 unità e dei posti di dirigente
scolastico e di direttore dei servizi generali e amministrativi». In base alla
giurisprudenza costituzionale (si citano le pronunce n. 417 del 2005, n. 181 del
2006 e n. 237 del 2009), una norma statale di principio, adottata in materia di
competenza concorrente, può incidere su una o più materie di competenza
regionale, anche di tipo residuale, il che comporterebbe la piena legittimità
costituzionale delle disposizioni oggi in esame.
L’Avvocatura dello Stato rileva, infine, che la previsione di una
soglia minima di alunni degli istituti scolastici costituirebbe uno degli
standard per conseguire l’autonomia e che la relativa materia è di spettanza
esclusiva dello Stato.
7.— In prossimità dell’udienza, hanno depositato memorie le Regioni
Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Puglia e Basilicata, confutando le
argomentazioni difensive dell’Avvocatura dello Stato, in particolare rispetto
alla attinenza delle norme censurate alla materia dei principi generali
sull’istruzione. Le difese delle Regioni hanno, altresì, ribadito la
illegittimità di tali disposizioni anche sotto il profilo della materia del
coordinamento della finanza pubblica, facendo riferimento all’orientamento della
Corte per cui in tale materia la legge statale può porre gli obiettivi,
lasciando alle Regioni la scelta circa gli strumenti concreti per la loro
realizzazione.
Considerato in diritto
1.— Le Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, Puglia,
Basilicata e la Regione siciliana hanno proposto, con separati ricorsi,
questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 4, del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111;
nei ricorsi delle Regioni Toscana, Umbria, Puglia e Basilicata le questioni sono
state sollevate anche con riguardo al comma 5 del medesimo articolo.
Ad avviso delle ricorrenti, dette norme sarebbero in contrasto con
l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto conterrebbero una
normativa di dettaglio in una materia (l’istruzione) oggetto di competenza
concorrente, posto che tali disposizioni non rientrano nella competenza
esclusiva dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost.
(norme generali sull’istruzione); con l’art. 117, sesto comma, Cost., secondo
cui la potestà regolamentare spetta alle Regioni in tutte le materie che non
rientrano in quelle di competenza esclusiva dello Stato; con l’art. 118 Cost.,
in quanto, anche invocando il principio di sussidiarietà in senso ascendente, si
sarebbe dovuta comunque garantire un’adeguata concertazione con le Regioni; con
l’art. 119 Cost., per lesione dell’autonomia finanziaria delle Regioni; con
l’art. 120 Cost., per lesione del principio di leale collaborazione; ed infine,
limitatamente alla sola Regione siciliana, le citate disposizioni sarebbero in
contrasto con gli artt. 14, lettera r), 17, lettera d), e 20 del regio decreto
legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione
siciliana), nonché con gli artt. 1 e 6 del d.P.R. 14 maggio 1985, n. 246 (Norme
di attuazione dello statuto della regione siciliana in materia di pubblica
istruzione), poiché la normativa statale interviene in un ambito nel quale alla
Regione è riconosciuta competenza esclusiva e concorrente e, di conseguenza,
anche esecutiva ed amministrativa.
2.— I giudizi vanno riuniti, avendo ad oggetto le medesime
disposizioni, ancorché prospettate in riferimento a diversi parametri
costituzionali.
Occorre preliminarmente rilevare che il testo dell’art. 19, comma 5,
oggetto di censura ha subito, successivamente alla proposizione delle odierne
questioni, una modifica ad opera dell’art. 4, comma 69, della legge 12 novembre
2011, n. 183 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato – Legge di stabilità 2012), a decorrere dal 1° gennaio 2012. Il
testo originario del comma 5, risultante dalla conversione del decreto-legge e
vigente nel momento della proposizione dei ricorsi, era il seguente: «5. Alle
istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di alunni inferiore a
500 unità, ridotto fino a 300 per le istituzioni site nelle piccole isole, nei
comuni montani, nelle aree geografiche caratterizzate da specificità
linguistiche, non possono essere assegnati dirigenti scolastici con incarico a
tempo indeterminato. Le stesse sono conferite in reggenza a dirigenti scolastici
con incarico su altre istituzioni scolastiche autonome». A seguito della
suddetta modifica, le due soglie di 500 e 300 unità sono state innalzate,
rispettivamente, a 600 e 400 unità; come si vede, si tratta di una modifica che
non è in alcun modo satisfattiva delle pretese avanzate dalle Regioni
ricorrenti, in quanto lascia praticamente inalterati i termini della lamentata
lesione delle competenze, limitandosi a modificare le soglie numeriche
necessarie per l’assegnazione alle istituzioni scolastiche di un dirigente
scolastico con incarico a tempo indeterminato.
Ne consegue che, in considerazione della sostanziale identità di
contenuto precettivo e del principio di effettività della tutela costituzionale
nei giudizi in via principale, in conformità alla giurisprudenza di questa
Corte, si procederà allo scrutinio dell’art. 19, comma 5, nel testo risultante
dalla modifica suindicata, benché la nuova disposizione non sia stata oggetto di
ulteriore ricorso in via principale (v., tra le ultime, le sentenze n. 139 e n.
237 del 2009, nonché la sentenza n. 15 del 2010).
3.— Passando al merito delle questioni, occorre esaminare per prima
quella relativa all’art. 19, comma 4, del d.l. n. 98 del 2011.
È opportuno rilevare, ai fini del corretto inquadramento della
questione, che il citato comma 4 è da ricondurre alla materia della
«istruzione». La giurisprudenza di questa Corte, successivamente alla riforma
del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, intervenuta con legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda
della Costituzione), ha individuato i criteri del riparto delle competenze tra
lo Stato e le Regioni nella materia dell’istruzione, allo scopo di porre una
chiara linea di confine tra i titoli di competenza esclusiva e concorrente che
sono stati entrambi previsti nell’art. 117 della Costituzione.
In particolare, con le sentenze n. 200 del 2009 e n. 92 del 2011 è
stata chiarita, alla luce delle precedenti pronunce sull’argomento (fra le
quali, si vedano la sentenza n. 13 del 2004 e le sentenze n. 34 e n. 279 del
2005), la differenza esistente tra le norme generali sull’istruzione – riservate
alla competenza esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, secondo comma,
lettera n), Cost. – e i principi fondamentali della materia istruzione, che
l’art. 117, terzo comma, Cost. devolve alla competenza legislativa concorrente.
Si è detto, a questo proposito, che rientrano tra le norme generali
sull’istruzione «quelle disposizioni statali che definiscono la struttura
portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere
applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio
nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale
parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione
(interesse primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire
scuole e la parità tra le scuole statali e non statali». Sono, invece,
espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme
che, nel fissare criteri, obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad
assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in
ordine alle modalità di fruizione del servizio dell’istruzione, da un lato, non
sono riconducibili a quella struttura essenziale del sistema d’istruzione che
caratterizza le norme generali sull’istruzione, dall’altra, necessitano, per la
loro attuazione (e non già per la loro semplice esecuzione) dell’intervento del
legislatore regionale» (sentenza n. 92 del 2011 che richiama la precedente n.
200 del 2009).
L’art. 19, comma 4, oggi in esame contiene due previsioni, strettamente
connesse: l’obbligatoria ed immediata costituzione di istituti comprensivi,
mediante l’aggregazione della scuola dell’infanzia, della scuola primaria e di
quella secondaria di primo grado, con la conseguente soppressione delle
istituzioni scolastiche costituite separatamente, e la definizione della soglia
numerica di 1.000 alunni che gli istituti comprensivi devono raggiungere per
acquisire l’autonomia; soglia ridotta a 500 per le istituzioni site nelle
piccole isole, nei comuni montani e nelle aree geografiche caratterizzate da
specificità linguistiche. Si tratta, quindi, di una norma che regola la rete
scolastica e il dimensionamento degli istituti.
Va osservato che il legislatore, prima della citata riforma
costituzionale del 2001, era intervenuto a regolare con apposite norme il
riparto di competenze relative all’organizzazione della rete scolastica; l’art.
138, lettera b), del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali,
in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), già disponeva che
fossero delegate alle Regioni le funzioni amministrative riguardanti la
«programmazione, sul piano regionale, nei limiti della disponibilità di risorse
umane e finanziarie, della rete scolastica, sulla base dei piani provinciali»;
subito dopo, il d.P.R. 18 giugno 1998, n. 233 (Regolamento recante norme per il
dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche e per la determinazione
degli organici funzionali dei singoli istituti, a norma dell’articolo 21 della
L. 15 marzo 1997, n. 59), ha disposto (art. 3) che le Regioni approvino il piano
regionale di dimensionamento delle istituzioni scolastiche sulla base dei piani
disposti dalle singole Province. Ne consegue che – come questa Corte ha avuto
modo di rilevare fin dalle sentenze n. 13 del 2004 e n. 34 del 2005 – è del
tutto implausibile che il legislatore costituzionale del 2001 abbia inteso
sottrarre alle Regioni la competenza relativa al programma di dimensionamento
delle istituzioni scolastiche che già era di loro spettanza in un quadro
costituzionale segnato da una impostazione maggiormente centralizzata.
La legislazione degli anni più recenti è intervenuta con altre
disposizioni in tale materia. L’art. 64, comma 4-quater, del decreto-legge 25
giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la
semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e
la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto
2008, n. 133, ha disposto – riconoscendo, ancora una volta, la competenza delle
Regioni – che le medesime dovessero provvedere, per l’anno scolastico 2009/2010,
ad assicurare il dimensionamento delle istituzioni scolastiche autonome nel
rispetto dei parametri fissati dall’art. 2 del citato d.P.R. n. 233 del 1998. Il
successivo d.P.R. 20 marzo 2009, n. 81 (Norme per la riorganizzazione della rete
scolastica e il razionale ed efficace utilizzo delle risorse umane della scuola,
ai sensi dell’articolo 64, comma 4, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 ,
convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), mirava a
modificare il quadro normativo, disponendo, all’art. 1, che alla definizione
«dei criteri e dei parametri per il dimensionamento della rete scolastica e per
la riorganizzazione dei punti di erogazione del servizio scolastico, si provvede
con decreto, avente natura regolamentare, del Ministro dell’istruzione,
dell’università e della ricerca, adottato di concerto con il Ministro
dell’economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata»
tra lo Stato e le Regioni. Il medesimo art. 1, peraltro, stabilisce che, fino
all’emanazione del menzionato decreto ministeriale, continui ad applicarsi la
disciplina vigente, in particolare il d.P.R. n. 233 del 1998, ivi compreso il
relativo art. 3 da considerarsi abrogato soltanto all’atto dell’entrata in
vigore del predetto decreto ministeriale (art. 24, comma 1, lettera d, del
d.P.R. n. 81 del 2009).
Non risulta, comunque, che tale decreto sia mai intervenuto, tanto che
alcune delle Regioni ricorrenti hanno fatto presente, negli odierni ricorsi, che
l’art. 19, comma 4, in esame è stato emanato quando esse avevano già provveduto
all’approvazione dei piani regionali di dimensionamento in vista dell’inizio
dell’anno scolastico 2011/2012, piani evidentemente formulati secondo lo schema
di cui al d.P.R. n. 233 del 1998.
4.— Alla luce delle osservazioni che precedono, la questione avente ad
oggetto l’art. 19, comma 4, è fondata.
La disposizione censurata mostra, anzitutto, un certo margine di
ambiguità perché, mentre impone l’aggregazione delle scuole dell’infanzia,
primaria e secondaria di primo grado, in istituti comprensivi, non esclude la
possibilità di soppressioni pure e semplici, cioè di soppressioni che non
prevedano contestuali aggregazioni. Ma, comunque, anche volendo disattendere
questa possibile lettura, è indubbio che la disposizione in esame incide
direttamente sulla rete scolastica e sul dimensionamento degli istituti, materia
che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 200 del 2009, n. 235
del 2010 e n. 92 del 2011), non può ricondursi nell’ambito delle norme generali
sull’istruzione e va, invece, ricompresa nella competenza concorrente relativa
all’istruzione; la sentenza n. 200 del 2009 rileva, in proposito, che «il
dimensionamento della rete delle istituzioni scolastiche» è «ambito che deve
ritenersi di spettanza regionale». Trattandosi di ambito di competenza
concorrente, allo Stato spetta soltanto di determinare i principi fondamentali,
e la norma in questione non può esserne espressione.
L’art. 19, comma 4, infatti, pur richiamandosi ad una finalità di
«continuità didattica nell’ambito dello stesso ciclo di istruzione», in realtà
non dispone sulla didattica: esso, anche con questa sua prima previsione,
realizza un ridimensionamento della rete scolastica al fine di conseguire una
riduzione della spesa, come, del resto, enunciato dalla rubrica dell’art. 19
(«Razionalizzazione delle spese relative all’organizzazione scolastica. Concorso
degli enti locali alla stabilizzazione finanziaria»), dalla rubrica del Capo III
del decreto-legge («Contenimento e razionalizzazione delle spese in materia di
impiego pubblico, sanità, assistenza, previdenza, organizzazione scolastica»),
nonché dal titolo del medesimo («Disposizioni urgenti per la stabilizzazione
finanziaria»). L’aggregazione negli istituti comprensivi, unitamente alla
fissazione della soglia rigida di 1.000 alunni, conduce al risultato di ridurre
le strutture amministrative scolastiche ed il personale operante all’interno
delle medesime, con evidenti obiettivi di risparmio; ma, in tal modo, essa si
risolve in un intervento di dettaglio, da parte dello Stato, in una sfera che,
viceversa, deve rimanere affidata alla competenza regionale.
Il carattere di intervento di dettaglio nel dimensionamento della rete
scolastica emerge, con ancor maggiore evidenza, dalla seconda parte del comma 4,
relativa alla soglia minima di alunni che gli istituti comprensivi devono
raggiungere per ottenere l’autonomia: in tal modo lo Stato stabilisce alcune
soglie rigide le quali escludono in toto le Regioni da qualsiasi possibilità di
decisione, imponendo un dato numerico preciso sul quale le Regioni non possono
in alcun modo interloquire. Va ribadito ancora una volta, invece, come questa
Corte ha chiarito nella sentenza n. 200 del 2009, che «la preordinazione dei
criteri volti all’attuazione del dimensionamento» delle istituzioni scolastiche
«ha una diretta e immediata incidenza su situazioni strettamente legate alle
varie realtà territoriali e alle connesse esigenze socio-economiche di ciascun
territorio, che ben possono e devono essere apprezzate in sede regionale, con la
precisazione che non possono venire in rilievo aspetti che ridondino sulla
qualità dell’offerta formativa e, dunque, sulla didattica».
Occorre rilevare, per completezza, che l’Avvocatura dello Stato ha
invocato, nei propri scritti difensivi, oltre ai titoli di competenza esclusiva
ed ai principi fondamentali in tema di competenza concorrente in materia di
istruzione, anche quello di competenza concorrente relativo al coordinamento
della finanza pubblica.
La Corte osserva, al riguardo, che, pur perseguendo la disposizione in
esame – come si è detto – evidenti finalità di contenimento della spesa
pubblica, resta pur sempre il fatto che anche tale titolo consente allo Stato
soltanto di dettare principi fondamentali, e non anche norme di dettaglio; e,
secondo la giurisprudenza di questa Corte, «norme statali che fissano limiti
alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice
condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio
della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo,
anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano
in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti
obiettivi» (sentenza n. 326 del 2010).
Sulla base delle precedenti considerazioni, va rilevato che la
disposizione sottoposta a scrutinio non risponde alle condizioni necessarie per
costituire un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza
pubblica.
L’Avvocatura dello Stato ha altresì invocato, con riferimento alla
seconda parte del comma 4 in esame, la competenza esclusiva statale in materia
di requisiti minimi che le istituzioni scolastiche devono possedere per essere
definite autonome. È indubbio che competa allo Stato la definizione dei
requisiti che connotano l’autonomia scolastica, ma questi riguardano il grado
della loro autonomia rispetto alle amministrazioni, statale e regionale, nonché
le modalità che la regolano, ma certamente non il dimensionamento e la rete
scolastica, riservati alle Regioni nell’ambito della competenza concorrente. Va
ricordato che la legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma
della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), che
reca norme fondamentali sull’autonomia – invocata anche dall’Avvocatura dello
Stato per motivare questa rivendicazione in competenza esclusiva – prevede,
all’art. 21, che i «requisiti dimensionali ottimali» per l’autonomia vanno
«individuati in rapporto alle esigenze e alla varietà delle situazioni locali».
Anche a motivo di questa esigenza, ancor prima del nuovo Titolo V della Parte
seconda della Costituzione, gli artt. 2 e 3 del d.P.R. n. 233 del 1998 – anche
esso invocato dall’Avvocatura perché, in larga misura, tuttora in vigore – hanno
previsto che i piani di dimensionamento delle istituzioni scolastiche, previsti
dall’art. 21 in questione, al fine dell’attribuzione dell’autonomia, vadano
definiti in conferenze provinciali, nel rispetto degli indirizzi di
programmazione e dei criteri generali, riferiti anche agli ambiti territoriali,
preventivamente adottati dalle Regioni, cui è affidata anche l’approvazione del
piano regionale.
L’art. 19, comma 4, del d.l. n. 98 del 2011, pertanto, va dichiarato
costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.,
essendo una norma di dettaglio dettata in un ambito di competenza concorrente.
Restano assorbiti gli ulteriori parametri richiamati nei ricorsi delle Regioni,
ivi compresi quelli relativi allo Statuto speciale ed alle disposizioni di
attuazione invocati dalla Regione siciliana.
5.— La questione avente ad oggetto l’art. 19, comma 5, del d.l. n. 98
del 2011, nel testo modificato dell’art. 4, comma 69, della legge n. 183 del
2011, non è fondata.
La disposizione censurata, come si è detto, prevede che alle
istituzioni scolastiche autonome costituite con un numero di alunni inferiore a
600 unità, ridotto a 400 per le istituzioni site in piccole isole, comuni
montani e aree caratterizzate da specificità linguistiche, non possono essere
assegnati dirigenti scolastici con incarico a tempo indeterminato; tali
istituzioni, invece, sono conferite in reggenza a dirigenti scolastici con
incarico su altre istituzioni autonome.
È indubbio che questa previsione incide in modo significativo sulla
condizione della rete scolastica, ma va rilevato che la norma in questione non
sopprime i posti di dirigente, limitandosi a stabilirne un diverso modo di
copertura e, tenendo presente che i dirigenti scolastici sono dipendenti
pubblici statali e non regionali – come risulta sia dal loro reclutamento che
dal loro complessivo status giuridico – è chiaro che il titolo di competenza
esclusiva statale, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., assume
un peso decisamente prevalente rispetto al titolo di competenza concorrente
previsto in materia di istruzione dal medesimo art. 117, terzo comma. La
disposizione in esame persegue l’evidente finalità di riduzione del numero dei
dirigenti scolastici – al fine di contenimento della spesa pubblica – attraverso
nuovi criteri per la loro assegnazione nella copertura dei posti di dirigenza e
questa materia rientra nell’ambito della competenza esclusiva dello Stato.
Ne consegue che la questione relativa al censurato art. 19, comma 5, va
dichiarata non fondata.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di
legittimità costituzionale promosse, nei confronti del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria),
convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111, dalle Regioni
Toscana, Emilia-Romagna, Liguria, Umbria, dalla Regione siciliana e dalle
Regioni Puglia e Basilicata;
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 19, comma 4,
del d.l. n. 98 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111 del
2011;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 19, comma 5, del medesimo d.l. n. 98 del 2011, convertito, con
modificazioni, dalla legge n. 111 del 2011, nel testo risultante dalle modifiche
introdotte dell’art. 4, comma 69, della legge 12 novembre 2011, n. 183
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato –
Legge di stabilità 2012), promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo e sesto
comma, 118, 119 e 120 della Costituzione, dalle Regioni Toscana, Umbria, Puglia
e Basilicata, con i ricorsi indicati in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo
della Consulta, il 4 giugno 2012.
F.to:
Alfonso QUARANTA, Presidente
Sergio MATTARELLA, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 giugno 2012.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
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